Cortocircuiti Il bello dentro al brutto, la street art e la sua capacità di costruire legami
L’arte di strada è uno dei volti della rigenerazione urbana, perché oltre a essere un’opera immaginata per essere vista e apprezzata, è anche un modo per cambiare il quartiere dove si realizza.

Pixabay
In arte Neve, all’anagrafe Danilo Pistone. È uno street artist di 35 anni da poco diventato papà («Ormai notti e giorni si assomigliano», dice divertito al telefono). È nato a Torino, realizza opere mozzafiato e di certo non ha peli sulla lingua: «Mi faccio quelle che in gergo sono volgarmente dette “seghe mentali”, e cioè prima di realizzare un disegno mi piace andare a capire che posto è, chi ci passerà, ma anche da quale direzione arriva la luce del sole».
Altro che seghe mentali, Neve ha riassunto in poche parole (e con l’accento torinese “sporcato” dagli anni trascorsi a Milano) il nodo centrale dell’arte di strada: il dialogo che intesse con il contesto urbano e i passanti che ogni giorno lo abitano. Migliaia di gambe e occhi sovrappensiero, indaffarati o distratti che solcano le vie delle città. E quante volte è successo di dirigere lo sguardo verso questo o quel murale, ammirandone linee e colori.
«Che belli», viene da pensare, ma la parete di un casermone di periferia rimarrà sempre tale, con o senza una spruzzata di vernice. E così i problemi in essa radicati, figli di anni di abbandono e disservizi. Il punto di vista cambia se si considera l’opera non come mero prodotto ideato per abbellire una facciata, bensì processo di riappropriazione di spazi pubblici e identità.
È quello che fa Mario D’Amico, 68 anni, street artist di periferia. Nel 2013 fonda il movimento dei “Pittori Anonimi der Trullo” e il nome non fa mistero delle sue origini romane. Il Trullo è una borgata a sud-ovest della Capitale e da quando Mario è tornato a viverci ha cambiato volto. Quasi a ogni angolo spuntano murales bellissimi, spesso accompagnati da versi in rima. Li scrivono i “Poeti der Trullo”, la costola primaria da cui è nato il progetto di D’Amico. Prima di eseguire il disegno, lui e il suo stuolo di artisti citofonano e mostrano i bozzetti ai residenti.
Se approvati proseguono con la realizzazione, che porta con sé anche qualche piccola miglioria: una passata di stucco per tappare i buchi sui muri, tagliare l’erba alta. L’intento è scuotere i residenti dall’immobilità: «Lo faccio per i regazzini, la generazione mia ormai è persa, ma loro no».
Chissà se Mario sa quale gesto primordiale si nasconde dietro al tosare l’erba nel quartiere. «Fin dai tempi antichi, spiega la psicologa e psicoterapeuta Donatella Caprioglio, l’essere umano ha bisogno di addomesticare l’ambiente in cui vive. Un prato in ordine attrae l’occhio perché esprime la cura verso quel luogo, e percepire cura e amore diminuisce la paura sociale. La street art risponde alla stessa esigenza. Dipingere pareti ed edifici significa, secondo Caprioglio, «dare un volto alla superficie, quasi rendendola umana. Colorando si racconta un’idea, anzi di più, si dice: “io esisto”».
Avere uno spazio destinato a esprimere «la propria peculiarità» è fondamentale anche per Giovanni Matteucci, professore ordinario di filosofia estetica all’Università di Bologna. Le periferie, che lui definisce «distanze immodificabili», dovrebbero disporre di «luoghi o momenti destinati ad accogliere la soggettività». In quest’ottica il palazzo diviene tela moderna, anzi lavagna «su cui incidere un segno che rappresenti la propria cifra distintiva». La street art, sostiene Matteucci, ha il pregio di «costruire una cultura della diversità nell’uniformità».
Non solo arte, però. Lo spazio urbano deve essere progettato in modo «esteticamente responsabile», dichiara il professore, dunque pensando alle relazioni che in esso avverranno. È lo stesso assunto da cui muove Roberto Pantaleoni, architetto del collettivo “Orizzontale”: «Bisogna abbandonare l’idea del professionista-demiurgo in grado di decidere da solo le forme e ricordare che il fine è agevolare l’incontro tra persone». E nessun luogo è meglio di una piazza per far incontrare moltitudini.
Ecco perché “Orizzontale” ha deciso di riqualificare il quartiere Toscanini di Aprilia (una città a meno di 50 chilometri da Roma) costruendo una sterminata agorà moderna, estesa su una superficie di 8600 metri quadri. Per farlo ha impiegato diversi prefabbricati e materiali facilmente reversibili. «Stacchiamoci dall’idea dell’immortalità dell’opera, oggi i luoghi devono essere dinamici e rispondere alle variazioni d’uso di chi li abiterà».
Per sua stessa natura, anche la street art è un inno alla contingenza e non aspira a bearsi della sua immortalità. Come dice il curatore di arte urbana Stefano S. Antonelli, il nodo centrale dell’arte di strada risiede nella capacità di «cortocircuitare», cioè mettere in correlazione il livello più alto, l’espressione artistica, con quello più basso, il contesto urbano spesso degradato. Le opere che nascono in strada sono fatte per essere vissute tutti i giorni dai passanti-spettatori, non contemplate come oggetti preziosi.
Il contrario di quanto accade in un museo: «Al suo interno abbassi la voce, componi i movimenti e cerchi di essere il meno disturbante possibile. Lo stesso atteggiamento che assumi in un luogo sacro». Il suo progetto, invece, guarda alla capacità performativa dell’arte, e cioè all’interazione con le persone. realizzarla nel contesto urbano è anche un modo per renderla più fruibile, sottraendola al dominio di esperti d’arte e collezionisti.
Antonelli è responsabile di “Big City Life”, un progetto di riqualificazione destinato a Tor Marancia, altro quartiere periferico di Roma. Qui artisti italiani e internazionali hanno realizzato 22 murales e dato vita al Museo Condominiale della zona. Secondo il curatore le opere sono «rappresentazioni ermeneutiche», cioè prodotti in grado di stimolare il passante a chiedersi cosa rappresentino. «Il contesto urbano è dominato da immagini che veicolano messaggi chiari, azzerando ogni tipo di interpretazione», racconta.
Lo scopo del museo a cielo aperto era solleticare la curiosità delle persone, spingerle a chiedersi: «Cos’è?». È successo davanti al murale dello street artist Jaz (il vero nome dell’artista argentino di origini italiane è Franco Fasoli), un episodio che Antonelli ricorda con piacere. Il disegno rappresenta due lottatori – sui calzoncini uno reca lo stemma della bandiera argentina, l’altro italiana – mentre combattono tra loro. L’argentino tiene sulle spalle l’atleta italiano e hanno entrambi un volto di tigre. Due passanti anziani li osservano senza spiegarsi il motivo, finché non arriva uno spettatore più giovane: «Ma che non ve lo ricordate l’uomo tigre?» Ha ragione, “Il Peso della Storia” (questo il nome dell’opera) è un omaggio al cartone animato.
«Siamo consumatori di esperienza e di bello – sostiene il professor Matteucci – e la forza espressiva della street art risiede nel fatto che i suoi prodotti artistici sono concepiti per permettere a chi guarda di immergersi in loro». Consumare il bello presuppone una dinamica precisa: le opere non possono né devono essere racchiuse in una teca che le sottragga al circuito dell’usura. Il murale è frutto di una specifica contingenza proprio perché racchiude in sé la soggettività dell’artista e l’identificazione del passante-spettatore.
Un “qui e ora” determinato, ma passibile di cambiamento. Come le architetture attente ai bisogni delle persone, così anche l’arte di strada, che proprio insieme all’architettura costituisce una sfaccettatura della riqualificazione urbana, è destinata a essere in costante mutamento. Incarna la necessità del tempo e quando questo cambierà dovrà cedere il passo a un disegno che ne colga di più lo spirito. È lo Zeitgeist, bellezza.
Cucine salvifiche, spazi flessibili e materiali biocompatibili: così cambia il concetto dell’abitare
Psicologi, architetti e interior designer stanno provando a tracciare i parametri di quella che sarà la casa del domani
Stasique_Photography
elena del santo Pubblicato il 04 Agosto 2020
«Noi plasmiamo le nostre case e poi le nostre case plasmano noi» sosteneva Churchill. Vero. Lo abbiamo provato sulla nostra pelle durante i mesi bui del Covid. La pandemia ha stravolto la nostra quotidianità e con esse il rapporto con il luogo in cui viviamo. E in tutto ciò anche lo smart working ci ha messo lo zampino moltiplicando le difficoltà della convivenza casa-famiglia-ufficio h24. Ogni abitazione ha subito un potente stress test e ora – dopo mesi di clausura forzata – ci si interroga sui perimetri, sulla flessibilità degli spazi e pure sulla natura, perché una cosa abbiamo imparato: la bellezza (e la fortuna) di poter disporre di un terrazzo o di un giardino. Psicologi, architetti e interior designer stanno provando a tracciare i parametri di quella che sarà la casa del futuro, perché il post-Covid19 lascerà il segno, anche sul mattone.
Il dibattito ha preso le mosse dalla conferenza in digitale su “Design&HomeWllness” organizzata dall’agenzia Doc-Com nell’ambito della rassegna #TempoDiRinascita. Secondo la psicologa e psicoterapeuta Donatella Caprioglio (autrice tra l’altro del libro Nel cuore delle case, ed. Punto d’Incontro) «l’abitazione è una stimolante metafora dell’identità personale. Dovremmo pensare a cosa ci hanno dato le costruzioni del passato e ripensarle in chiave moderna. Come i monasteri, dove ognuno aveva la propria cella, ma anche spazi condivisi con la presenza costante della natura. Non dobbiamo abbandonare il concetto filosofico di pieno e di vuoto, la dicotomia fra il vuoto assoluto della privatezza e la necessità del confronto, perché non ci costruiamo da soli, ma in relazione con gli altri. Da questa esperienza abbiamo imparato a vivere con meno e abbiamo capito l’importanza della qualità di spazi interni che abbiano un senso. Le abitazioni sono presidi di salvezza, ma anche di terapia». Dunque, sceglieremo ambienti che «bilancino condivisione e intimità, cucine salvifiche e capienti, spazi che garantiscano la connessione personale, e poi, terrazzi». Da un’indagine del gruppo di Architetti 5D è emerso che la casa non è un semplice elemento contenitore, ma un convertitore di emozioni e di stato d’animo, un amplificatore di situazioni. Questione che cambia l’approccio alla progettazione: «Occorre considerare non solo aspetti fisici e materiali dell’abitare, ma anche la parte intangibile degli ambienti, come la forza energetica degli edifici: la casa progettata con questa consapevolezza può essere un luogo energetico, in grado anche di rigenerare chi la abita».
«Credo lo stare bene debba essere letto con un approccio olistico» sostiene Matteo Brioni che utilizza la terra cruda per le finiture di interni, unendo etica, estetica e ecologia, «un materiale naturale e antichissimo, utilizzato da secoli per i suoi effetti benefici ad esempio sulla pelle. Garantisce benessere e comfort abitativo che viene percepito da tutti i sensi, persino dall’udito perché questo materiale offre anche vantaggi acustici» spiega. Invece, il legno biocompatibile migliora la qualità dell’aria. «La necessità oggi è quella di individuare un metodo scientifico di misurazione della salubrità indoor e dei materiali, in modo tale da certificare se un prodotto è realmente sano, esattamente come accade per le classi energetiche» dice Marco Felicetti, ad di Fiemme Tremila, azienda la cui mission è di «portare il bosco in casa». Da uno studio del Cnr è emerso che i «pavimenti da respirare» in legno ecocompatibile non solo non emettono alcuna sostanza nociva, «ma rilasciano iVoc (Volatile organic Compounds) nell’ambiente, gli stessi tipici delle piante, in grado di migliorare la qualità dell’aria indoor».
Se, come citava Kandinskij «il colore è un mezzo per influenzare direttamente l’anima», negli appartamenti del domani l’espressività cromatica giocherà un ruolo chiave. A cominciare dalla stanza da bagno, oggi «la stanza del benessere per eccellenza, luogo capace di trasmettere e veicolare le emozioni» sostiene Enrico Cesana, arti director del Gruppo friulano Artesi. Così, piatti doccia e cabine si tingono come tele d’artista, dai toni caldi che esprimono vivacità, energia, dinamicità, alle tinte fredde, ottime da usare se si vuole trasmettere un senso di calma e tranquillità. Oltre all’uso consapevole e stimolante del colore, fra le mura domestiche si guarderà sempre più al wellness-design che fa bene alla salute e allena il sistema immunitario, tra bagni di vapore, saune detossinanti ed esercizi di mindfulness.
Se lo spazio lo consente, attrezzare una piccola spa domestica sarà un must. Magari attingendo dalla collezione Starpool azienda trentina specialista del settore (ha progettato spa nei migliori hotel del pianeta, dal Bulgari di Milano, alla Clinique La Prairie in Svizzera, passando per Bali e Shanghai) che ha anche una linea «home» con la SweetSaunaSmartCombi che unisce in un unico ambiente la sauna tradizionale di origine finlandese e la più delicata sauna a infrarossi. Detossinante, dà equilibrio al sistema immunitario, allena l’apparato cardio circolatorio e respiratorio, produce serotonina e ossigena pelle, tessuti e organi vitali.
DESIGN RESISTENZA
Nel cuore delle case, post lockdown
Inserito da Cristina Provenzano | Lug 8, 2020 | News
“Parlare di case significa in realtà parlare di persone, per questo l’abitazione è una stimolante metafora dell’identità personale”. A sottolinearlo è Donatella Caprioglio, psicologa, psicoterapeuta e scrittrice, professoressa in diverse università in Italia e a Parigi, dove si occupa anche di “Psicologia dell’Abitare”, e autrice nel 2012 del libro “Nel cuore delle case”, pubblicato da Edizioni Punto d’Incontro. Caprioglio ha partecipato alla conferenza “Design&HomeWellness” organizzata dall’agenzia di comunicazione DOC-COM nell’ambito della rassegna #TempoDiRinascita.

Per la prima volta nella storia, tra marzo e aprile, ogni abitazione ha subito un potente stress test. Quali saranno i cambiamenti nel futuro prossimo dell’abitare? Da qui l’interessante punto di vista della dottoressa Donatella Caprioglio: “Ci siamo conosciuti meglio abitando le nostre case durante questo lockdown. Dovremmo pensare a cosa ci hanno dato le costruzioni del passato e ripensarle in chiave moderna. Come i monasteri, dove ognuno aveva la propria cella, ma anche spazi condivisi con la presenza costante della natura. Non dobbiamo abbandonare il concetto filosofico di pieno e di vuoto, la dicotomia fra il vuoto assoluto della privatezza e la necessità del confronto, perché non ci costruiamo da soli, ma in relazione con gli altri. Da questa esperienza abbiamo imparato a vivere con meno e abbiamo capito l’importanza della qualità di spazi interni che abbiano un senso. Troppo spesso abbiamo abitato senza capire che abitare è abitarsi – sottolinea Donatella Caprioglio – Le abitazioni sono presidi di salvezza, come durante il lockdown, ma anche di terapia. Il grande spunto di riflessione che ci lascia questa esperienza unica nella storia è che la casa può essere un dispositivo di cura personale: se abitare significa abitarsi e capire noi stessi, spero che sia arrivato il momento di iniziare a coltivare una consapevolezza maggiore, che ci permetterà di respirare e di vivere meglio”.
(Photo: Matteo Brioni, Artesi e Starpool)
#STARBENE – internimagazine.it
Home therapy
La casa è un potente strumento terapeutico se viene capita e utilizzata con una consapevolezza nuova
*Donatella Caprioglio, psicologa, psicoterapeuta e scrittrice, autrice di ‘Nel Cuore delle Case’, Edizioni Il Punto d’Incontro
Durante lo scorso confinamento abbiamo imparato molto di noi dalle nostre case.
Sei mesi fa, forse per la prima volta nella nostra vita, ci siamo abitati: cioè abbiamo capito che la casa siamo noi, il nostro corpo e i nostri bisogni primari. Abbiamo colto il valore simbolico delle stanze e usato questa conoscenza per entrare in contatto con il nostro mondo interno e per tenera a bada le paure sottostanti con i gesti del quotidiano. Alcuni di noi hanno capito che la casa può essere il centro del nostro stare bene.
E ora? Possiamo pensare a questo nuovo, seppur si spera diverso, confinamento come una possibilità di mettere a frutto quello che abbiamo imparato per trovare un nuovo benessere domestico? Per creare una rinnovata geometria di noi stessi, più in sintonia con i nostri bisogni e con la nostra poetica interiore?
Io credo di sì. Se partiamo da un atto essenziale: guardare con occhi critici il nostro spazio domestico e il nostro modo di abitarlo.
La casa, in generale, si costruisce lentamente, procedendo per strati successivi, tra errori e trovate geniali. Ogni trasformazione – un oggetto nuovo, il liberarsi di qualcosa di vecchio, spostare mobili o cambiare colori – è un’occasione di conoscere noi stessi.

Pensiamola quindi come un percorso, un’opera d’arte da costruire affidandoci al nostro intuito, al nostro bisogno di calmare le inquietudini, alla ricerca di un’armonia che inglobi quello che per noi è bellezza (ce lo siamo mai chiesto cos’è per noi la bellezza nella nostra casa?).
Da dove iniziare? Da un ascolto maggiore alle nostre esigenze profonde, dalla capacità di osservare, cambiare, modellare lo spazio alla ricerca di un sottile godimento: ricordandoci che attraverso i gesti che compiamo controlliamo le ansie del nostro mondo interiore, lisciamo le asperità della vita come lenzuola su un letto.

Capire cos’è il godimento per noi – per ognuno è diverso – è fondamentale. Guardiamoci dentro e troviamo punti fermi in questo momento di incertezza. Forse il corpo richiede cibo preparato con cura. Forse il piacere è una pianta in terrazzo, una biblioteca con libri che si ha voglia di sfogliare, una candela profumata mentre si fa un bagno rilassante, lenzuola morbide per l’inverno incipiente. Ai nostri muri abbiamo opere che ci piacciono o riempiamo lo spazio per un orrore del vuoto?
Per stare bene nel nostro abitare abbiamo bisogno di case e spazi personali ma anche di natura, città, intimità e confronto continuo. L’uomo solo, dentro casa, può anche impazzire. Come ormai è chiaro alla maggior parte di noi.
Le architetture del futuro dovranno quindi tenere conto di questo bisogno di integrazione psicologica e strutturale: penso ai gradini delle case dei piccoli villaggi costruiti per sedersi fuori, architetture transizionali che permettono uno scambio protetto con l’esterno; penso ai bow-windows che prolungano la presenza della casa e rimangono in contatto con la città. Abbiamo bisogno dell’incontro, dell’imprevisto per dare un limite al pensiero che, lasciato senza confronto, può diventare ipertrofico e anche delirante.

Ph. Shantanu Starick – Longhouse, progettata dallo studio Partners Hill a Daylesford, nelle campagne vicino a Melbourne, in Australia
Per stare bene, allora, bisognerebbe creare spazi metaforici di connessione tra gli edifici: giardini pensili, portici, passerelle, ponti e ballatoi. Abitare più le soglie e viverle non come barriere, frontiere, ma aperture, scambio fluido di energia essenziale.

Ph. Silvia Molteni – Like Sunshine
È lo stesso processo che ho suggerito di fare per le nostre case (guardarle e guardarci dentro, crescere in osmosi) ma applicato alla città. Quello che ci sta succedendo può, in questo senso, essere una bella avventura, l’occasione di scoprire qualcosa di bloccato, o semplicemente negato. Potremmo alla fine aver imparato ad abitare per abitarci a fondo, liberarci da ricordi ingombranti, respirare in uno spazio nuovo. Nelle nostre case come nelle nostre città.
01 luglio 2020 di Patrizia Vacalebri – DESIGN&GIARDINO
Idee per la casa del futuro a prova di virus
Spazi comuni più grandi, terrazzi, materiali naturali
Ambienti che bilancino condivisione e intimità, cucine capienti, spazi per la connessione, e poi, terrazzi, balconi. Materiali naturali come l’argilla e la terra cruda per definire gli interni, pavimenti in legno biocompatibile.
A causa della pandemia, per la prima volta nella storia, ogni abitazione ha subito di fatto un potente stress test. Allora quali saranno i cambiamenti nel futuro prossimo dell’abitare?Design & Home Wellness, incontro in digitale tra esperti del settore organizzato da Doc-Com , nell’ambito della rassegna #TempoDiRinascita, ha fornito alcune risposte..

Dal convegno è emerso che la casa può e deve avere un valore terapeutico per chi vi abita. “Parlare di case significa in realtà parlare di persone, per questo l’abitazione è una stimolante metafora dell’identità personale – conferma la psicologa-scrittrice Donatella Caprioglio, autrice del libro Nel cuore delle case -. Ci siamo conosciuti meglio abitando le nostre case durante il lockdown. Case in cui la cucina ha avuto il sopravvento, fulcro della vita quotidiana, stanza simbolo di bisogni primari e di socialità. Non è stata da meno la stanza da bagno, luogo sacro dove rilassare il corpo, spazio della solitudine, del sé. Abbiamo usato il corridoio per sgranchirci le gambe, gli armadi per regolare l’ordine e il disordine dei pensieri, e il balcone, per chi l’ha avuto, come prospettiva che ci ha collegati al mondo esterno. Dovremmo pensare a cosa ci hanno dato le costruzioni del passato e ripensarle in chiave moderna. Come i monasteri, dove ognuno aveva la propria cella, ma anche spazi condivisi con la presenza della natura”. La casa del futuro ha bisogno di architetti che guardino all’abitazione come luogo energetico in grado di dirigere attivamente chi vi abita, secondo Eusebio Gualino, ad di Gessi, da qualche anno ha creato il gruppo di Architetti 5D. “Fisica quantistica ed epigenetica -afferma Caterina Locati, laureata al Politecnico di Milano – confermano che azioni che sembrano non avere impatto sullo spazio, come pensieri, parole, gesti, condizionano invece il modo in cui noi viviamo in quello spazio e la capacità della casa e dei luoghi di farci stare bene o meno e influenzano anche la biologia e l’espressione dei nostri geni. Tutto ciò ha anche un inevitabile impatto sulla salute”..
La pandemia sta investendo anche il mercato immobiliare che cerca di rispondere al cambiamento attraverso la riconversione delle abitazioni: balconi più luminosi, impianti di ricambio dell’aria negli ambienti indoor, spazi comuni come i grandi open space che vengono rivisti con inserimenti di pareti mobili, soluzioni dedicate allo smart working e spazi per l’attività fisica. La casa è diventata anche ufficio e palestra, i balconi piccoli parchi privati che sostituiscono i pubblici per leggere o prendere il sole. “Ma soprattutto il lockdown causato da una pandemia globale ha portato a galla il legame tra l’abitare e la salute fisica dell’individuo. Per questo – , osserva la giornalista Maria Chiara Voci – gli ambienti chiusi possono rivelarsi anche molto pericolosi: sono oltre 900 gli inquinanti chimici, biologici o fisici dannosi per la salute a cui si è sottoposti a casa o sul lavoro. Per questi motivi, bisogna coinvolgere figure mediche nella progettazione delle case”. .
Nella casa del futuro, secondo Matteo Brioni vanno usati l’argilla e la Terra cruda, “materiale naturale e antichissimo”. Infine, mai come oggi è emersa l’importanza di avere un sistema immunitario forte e allenato, per vivere in benessere. E proprio l’allenamento quotidiano del sistema immunitario è l’obiettivo dei prodotti wellness per la casa firmati Starpool. Azienda trentina da 45 anni specializzata in realizzazione di centri benessere e spa, che conta oltre 4mila progetti firmati per anche hotel stellati come il Mandarin e l’Armani Hotel e il Bulgari di Milano..
“Le nostre collezioni per la casa – ha spiegato Francesca Eccel, spa trainer dell’azienda – sono design che fa bene al cuore e alla salute della persona. Tutti i prodotti più innovativi, SweetSaunaSmartCombi, che unisce in un unico ambiente la sauna tradizionale di origine finlandese e la più delicata sauna a infrarossi. Detossinante, dà equilibrio al sistema immunitario, allena l’apparato cardio circolatorio e respiratorio, produce serotonina e ossigena pelle, tessuti e organi vitali. La rigenerazione completa di corpo e mente è infine l’obiettivo di Zerobody, un sistema evoluto per il galleggiamento a secco (dry floating), presentato anche alla Float Conference di Portland, in cui, grazie alla perdita gravitazionale, la pressione arteriosa si abbassa, la circolazione venosa e linfatica migliora, si distende la colonna vertebrale, si attenuano dolori muscolari e articolari, e si migliorano i disturbi legati alla qualità del sonno”.
Sabato, 16 maggio 2020 – AFFARITALIANI.IT
Coronavirus, il nuovo senso dell’abitare: così cambia la casa post Covid-19
L’intervista di Affari a Donatella Caprioglio, psicoterapeuta e scrittrice

Qual è il nuovo senso dell’abitare dopo questo lungo lockdown? Come cambia la casa post Coronavirus? Affaritaliani.it lo ha chiesto a Donatella Caprioglio, psicoterapeuta e scrittrice, autrice del libro “Nel cuore delle case” (Ed. Il punto di Incontro).
Come è stata vissuta la casa durante il confinamento?
“La casa al tempo del coronavirus è stata un presidio per proteggerci da un nemico invisibile e dall’ansia che questo accadimento impensabile ci scatenava. E’ stata il teatro delle nostre paure e dei meccanismi difensivi per sorpassarle. L’abbiamo pulita con amore o furore, risanata, alleggerita dalle nostre pene. Attraverso lei abbiamo capito la difficile arte della sottrazione e l’immenso piacere di sperare di arrivare all’essenziale. E’ servita magnificamente come un oggetto, direi meglio, soggetto terapeutico per eccellenza.
Ci siamo conosciuti abitandola, a volte odiandola anche per differenti e personali ragioni, occupando i vari spazi con esigenze nuove, riparative e rassicuranti diverse da quelle conosciute. La cucina ha avuto la meglio come stanza simbolica di prima assistenza ai bisogni primari, il bagno come luogo sacro per purificare e rilassare attraverso l’acqua un corpo contratto e garantire la solitudine, il corridoio per sgranchirsi le gambe, gli armadi per controllare attraverso l’ordine, il disordine dei pensieri, il balcone, terrazzo o giardino per collegarsi ad una prospettiva altre noi stessi. Guardare oltre la siepe e mettere le mani dentro la terra per collegarci al mondo, vederlo attraverso la natura, cambiare, germogliare, trasformarsi. Vivere un ritmo regolare”.
Cosa abbiamo imparato da questa potente metafora della nostra identità?
“Prima di tutto a conoscere i nostri bisogni e le nostre manie, i rituali necessari, gli spazi preferiti, la ricerca di soddisfare bisogni essenziali quali il nutrirsi, lavarsi, dormire, ma anche socializzare, isolarsi, astrarsi e lasciarsi andare. Abbiamo visto il da farsi per migliorare lo spazio forse troppo esiguo, poco comodo, mal pensato per darci un benessere che in cattività diventa cura. Abbiamo imparato a capire il senso dell’abitare e sognare uno spazio ideale”.
Quali sono i parametri essenziali delle case dopo Covid-19?
“Spazi che bilancino condivisione ed intimità, cucine capienti, salvifiche in certi momenti di ansia, stanze che garantiscano la riflessione personale e altre la riunione conviviale, terrazze che producano l’idea di un supplemento di vita, che diano la possibilità di coltivare un fiore, un orto. Giardini, quando si può, pergole che creano una transizione tra privato e sociale, gradini per stare fuori e tra una casa e l’altra per socializzare con la dovuta distanza. E soprattutto, verde e alberi per respirare perché senza la natura, abbiamo capito e studiato, che non si può stare. Dal passato abbiamo esempi che dimostrano l’attenzione ai bisogni umani di silenzio e di convivio, di natura contemplata e natura operata. Uno fra i tanti, i conventi con i chiostri ne sono l’esempio, ognuno la sua cella con il suo spazio interiore, con i fiori o alberi profumati, il porticato per camminare riparati dalla pioggia, gli orti conclusi per provvedere alla sussistenza.
In scala moderna non dovremmo abbandonare questo concetto filosofico e architettonico di armonia tra il pieno e il vuoto, tra il bisogno di privatezza e la necessità di un confronto, tra odori e stagioni mutanti che ci riaggancino ad un ritmo universale. Abbiamo imparato a vivere anche con meno, purché funzionale. Aumentiamo la qualità del nostro interno con soluzioni di minor dispendio energetico, di maggior afflusso di luce, di materiali di ottima qualità il più possibile naturali e nostri, di buoni letti per riposare e stanze da bagno per rigenerare e connessioni ottimali per poter permettersi di fermarsi in casa a lavorare. Non senza uno sguardo all’esterno, alla foglia avvizzita eliminata, alla pausa di tanto in tanto per contemplare e dare aria al cervello.
Abbiamo beneficiato del gesto del vicino, della solidarietà che dà una gratificazione maggiore all’abbondanza del vuoto di un’emozione. Che questa lezione che tutti noi abbiamo praticato, ci serva a capire il senso del nostro abitare. E’ questo il tempo giusto per iniziare a pensare di cosa ha bisogno l’uomo, per continuare a respirare”.
Ottobre 21, 2019

«Abitare è abitarsi»: progettare una casa felice si può, guardandosi dentro
Le nostre case ci fanno stare bene o male, perché il design dei nostri interni ha un impatto enorme sul nostro benessere. Per creare il nido migliore bisognerebbe investire tempo per conoscersi, più che conoscere le tendenze. Soprattutto quando si progettano spazi intimi come il bagno. I consigli della psico-analista che sussurra agli architetti, Donatella Caprioglio
Vanno a decine e decine, gli architetti, ad ascoltare Donatella Caprioglio. All’estero, in Italia.
Perché la psicoanalista è anche l’unica professionista del settore a prendere seriamente il tema dell’abitare. «Abitare è abitarsi», dice.
Una frase un po’ sibillina che spiega nel suo libro (Nel Cuore delle Case, ed.Punto di Incontro), diventato una specie di bibbia per chi vuole progettare tenendo a mente il benessere psicologico di chi vivrà nei suoi spazi.
Una lezione da tenere ben presente, soprattutto quando si parla di bagno.
Dottoressa Caprioglio, come mai ha iniziato a occuparsi di case?
«Come psicanalista sono specializzata nei bambini da 0 a 3 anni. Cioè sulla fase di costruzione dell’identità. Per ognuno di noi, chi saremo viene determinato in gran parte da quello che viviamo in quei primi mesi di vita: dal terreno famigliare, dal tratto generazionale, dalla famiglia, e dalle relazioni precoci. La qualità di queste relazioni determinerà la nostra identità: sarà forte o debole, solida o traballante. Tutto ovviamente si può riparare ma se le fondamenta sono buone è più semplice costruire. È proprio come quando si realizza una casa, ho pensato un giorno. E in quel momento mi sono resa conto che il luogo in cui abitiamo e l’identità si costruiscono allo stesso modo».

Tante altre cose vanno costruite con cura, però, non solo le case…
«Vero. Ma la casa è un archetipo universale, un oggetto esterno ma che fa parte di noi, una “coperta” di cui abbiamo tutti bisogno. Basta osservare un bambino nella sua evoluzione: appena impara a gattonare corre sotto il tavolo per cercare protezione, per riprovare la sensazione del ventre materno. La casa è il nostro rifugio, per questo è così indissolubilmente legata a noi. E ha un senso rivolgerle uno sguardo psicoanalitico».
E cosa dice questo sguardo psicoanalitico sulle nostre case?
«Innanzi tutto avvicina gli spazi abitativi alle nostre pulsioni. Da 0 a 3 anni, scopriamo progressivamente il nostro corpo e quello degli altri attraverso le fasi orale, anale e genitale. La prima corrisponde al cibo, all’attaccarsi al seno della mamma: è la pulsione di vita primordiale. Nella casa, è la cucina. La seconda è il momento in cui il bambino diventa indipendente rispetto ai suoi bisogni: si è studiato, capito, ha guadagnato padronanza di sé e della sua intimità. Il corrispondente abitativo è il bagno. L’ultima fase è invece quella in cui il bambino scopre la sua sessualità e sperimenta, anche aprendosi al mondo: e arriviamo alla camera da letto. A seconda di come le persone investono nella progettazione di queste tre stanze – le uniche che esistono in tutte le case del mondo – possiamo capire in che modo ci rapportiamo a queste tre modalità di vita: la sopravvivenza e la condivisione, il benessere e la cura personale, i rapporti intimi con gli altri».

Casa a Kyoto, progetto di 07Beach
Quindi secondo lei scegliere una cucina xs oppure un bagno xl dice molto su chi siamo?
«Certamente. Anche se non è tanto questione di dimensioni quanto di cura e attenzione che si mette in un certo ambiente. E, soprattutto, dell’uso che si fa di uno spazio. Uno può avere una cucina enorme e non usarla. Oppure dire che vuole una cucina a scomparsa, perché di preparare il cibo non gli importa nulla. Tutti segni di un rapporto non idillico con la famiglia e in particolare la madre».
Ma l’architetto cosa c’entra? Anche una volta capito che il suo cliente ha una cattiva relazione con la madre cosa può fare?
«Investire nel capire profondamente qual è il vero sogno di vita del suo cliente, che avrà molto a che fare con le sue problematiche personali e come affrontarle. E non sarà necessariamente la prima cosa che il cliente chiede, perché siamo spesso influenzati dai dettami della moda e della società. L’architetto non può certamente fare lo psicoanalista. Però la relazione che crea con la sua committenza può essere simile a quella terapeutica, andare fino in fondo nell’esplorare non solo cosa si vuole ma perché».

Veniamo al bagno. Cosa rappresenta?
«Il bagno è il luogo più terapeutico della casa, l’unico spazio dove dovrebbe esserci una chiave per permetterci di stare da soli con noi stessi. Il bagno è il contatto con l’intimità del proprio corpo e il beneficio profondo dell’acqua. Come lo concepiamo e arrediamo rifletterà la cura o meno che abbiamo per noi stessi».
Com’è il bagno ideale?
«Quello giapponese, perché aiuta a rigenerarsi. Dove ci si lava con la doccia e poi ci si immerge in una tinozza di legno di cipresso nell’acqua calda e in posizione fetale. E si medita, guardando qualcosa di bello: un giardino o anche solo una pianta. Perché nel momento del relax abbiamo tutti bisogno di aggrapparci a qualcosa che ci rigenera regalandoci bellezza».
E il bagno italiano?
«Per noi il bagno è uno status symbol. Quindici anni fa, quando si è iniziato a capire che questa stanza non era solo una utility ma un luogo di benessere, la risposta è stata acquistarsi l’idromassaggio. Ma non è così che costruiremo troveremo noi stessi attraverso il nostro corpo – perché questa è la funzione del bagno».
Come, allora, si progetta il bagno che davvero ci porta benessere?
«Il processo deve partire da noi. Dal nostro rapporto con l’acqua. In questo senso l’architetto può aiutare a far crescere una consapevolezza di cosa questo elemento significa per noi. Basta vedere un video di bambini appena nati che si addormentano nell’acqua calda. È un simbolo potentissimo, un luogo ovattato che ci riporta nel ventre materno grazie al ricordo che abbiamo sulla nostra stessa pelle. L’acqua, da sola, è un relax ma dobbiamo saperla apprezzare per quello che è».
Cosa dovrebbe fare l’architetto davanti a chi dice: “voglio un bagno enorme”?
«Capire perché lo vuole. Se davvero è una persona che ha bisogno di trovare se stessa, di darsi uno spazio dove chiudere tutto e posare lo sguardo su di sé. Oppure se è semplicemente qualcuno che segue le tendenze e considera questo luogo come un tassello per la costruzione della sua immagine. A volte capita che il cliente abbia questo atteggiamento solo perché non conosce altro: in questo caso l’architetto che capire la psicologia dell’abitare può guidarlo verso qualcosa che gli farà senz’altro meglio. Se invece si insiste su questa via, allora la progettazione sarà molto diversa rispetto a quella che si fa per un bagno terapeutico».
E chi ha un bagno piccolo?
«Anche solo con a doccia si può provare il potere rigenerante dell’acqua. È tutto dentro di noi, parte dalla consapevolezza di chi siamo, dello spazio intorno a noi e del nostro corpo, più che dalle dimensioni e dalle tecnologie».